I Giallofrisci

di Gianni Sarti



Dico, a uno possono mancare le belle donne, o il profumo del pane appena sfornato, o anche i gabbiani al tramonto che volano sulla spiaggia. Quegli stupidi gabbiani che non fanno altro che volare lungo le spiagge tutti i tramonti di tutti i santi giorni, domeniche e festività comprese.
A me no. Bèh, che ci posso fare? Sto qui da anni ormai, e quello che mi manca di più è un pacchetto di stuzzicadenti. E non che io sia uno di quelli fissati per l'igiene dentale, sai, anzi ora puzzo come una capra e ho le treccine sulla barba. Eppure mi mancano tanto gli stuzzicadenti...
Un posto da schifo, qui. Niente donne, niente pane fresco, niente gabbiani. E niente stuzzicadenti.
Però ci sono le paperelle. Sono strani cosi con una pelliccia viola e le zampe palmate, e non hanno il becco. Somigliano a qualche disegno di Walt Disney venuto male, ma il peggio è che basta che mi vedono che si mettono a seguirmi eccitate, gongolando su quelle zampette e urlando "Qua! Qua!" per farmi pubblicità. Ne ho sempre a decine intorno; un tempo ho pensato di arrostirle sul fuoco ma quando ho preso una di quelle cose sul suo lungo collo e lei m'ha guardato con quegli occhioni blu dall'alto dei suoi trenta centimetri d'altezza, sorridendo felice mentre gorgogliava i suoi qua qua ho ripensato a papà Disney, e non me la sono sentita di fare del male al fratello brutto di Qui Quo e Qua, così gli ho dato una grattatina sotto il mento e l'ho messa giù, e sono andato ancora una volta a cercarmi le bacche blu per cena. Sono tornato alla capanna che quel paperottolo idiota ancora stava zompettando per la felicità di essere stato grattato sotto il mento.
Odio quei paperottoli.
E odio le bacche blu. Ne sanno di sciroppo contro la tosse misto a maionese, e da quando sono qui non mangio altro che bacche blu a colazione, bacche blu a pranzo, bacche blu a cena. La domenica, o almeno quando io decido sia domenica, a fine pasto metto le bacche blu avanzate in un piattino di terracotta, ci faccio una piramide rotonda e cerco di chiamarlo dessert. Senza il dessert come fa una domenica ad essere domenica? Ricordo addirittura che a Natale ho inventato il tacchino di bacche blu, e a Pasqua ci ho fatto anche una torta.
Una torta che sa di sciroppo e maionese come il tacchino, il dessert e tutto il resto. Blah.
Ma ormai ci ho fatto l'abitudine; prima, prima era diverso. I primi tempi che stavo qui... Dio che paura avevo! Prima di trovare il coraggio di assaggiare una bacca blu ho digiunato per quattro giorni. E sì che la Voce me l'aveva detto: "Gli umani potranno mangiare le bacche blu, i giallofrisci mangeranno le radici ypprq". Ovvio che non sapevo cosa fosse una radice ypprq, e tantomeno sapevo com'era fatto un giallofriscio. Mi immaginavo un mostro di tre metri e venti pieno di zanne, denti, unghie, squame, con la coda, le corna e tre occhi rossi sopra un'enorme bocca bavosa. Il tutto di un bel colore giallo canarino, ovviamente.
Quella voce mi aveva messo una fifa... Immagina, io ero in banca a versare un assegno, sabato mattina ai Parioli, immagini la fila?, e dopo mezz'ora di coda tutto di colpo la banca scompare e io mi ritrovo con l'assegno in mano nel mezzo di una foresta arancione, sotto un cielo viola. E avevo la macchina in doppia fila! Chiamo ad alta voce il cassiere, ed ecco la Voce, imponente e divina. Pensai subito che fosse quella del direttore della banca.
"Niente paura, ciò che vi è accaduto è sotto il mio controllo."
"Bene- dissi io, -ma chi mi cambia l'assegno?"
Pensavo ancora ad un trucco di illusionismo, anche se non capivo come una banca seria potesse fare scemate simili.
Mi sbagliavo; la banca non c'entrava proprio niente. La Voce spiegò che nella galassia c'erano tre forme di vita: gli umani, nella periferia del braccio Ovest; i giallofrisci, verso il centro e un po' più a Nord; e lei. Ero lì con l'assegno in mano e la cravatta buona ad ascoltare queste storielle da cartone animato giapponese. Bèh, gli umani e i giallofrisci stavano cominciando ad espandersi e prima o poi si sarebbero incontrati e, da bravi popoli civilizzati che erano, si sarebbero messi subito a fare la guerra. E ciò avrebbe disturbato assai la Voce, che anche se non aveva un pianeta su cui vivere, dato che era immateriale, odiava il chiasso e la confusione. Perciò la Voce aveva deciso di teletrasportare su quel pianetino remoto dodici uomini e dodici giallofrisci, e vedere così quale razza tra le due aveva la buona creanza di eliminare l'altra per prima. Dodici contro dodici, una guerra in miniatura con vincitori in miniatura, una specie di prova generale che avrebbe mostrato alla Voce quale razza era più potente dell'altra, quindi quale razza avrebbe vinto la grande guerra galattica che altrimenti ci avrebbe aspettato. La Voce partiva dal presupposto che chi vinceva questa miniguerra avrebbe vinto anche la guerra vera; bah, secondo me è un po' come dire che una squadra di calcio che batte un'altra squadra al biliardino è la stessa squadra che vincerebbe una partita vera, o come fare giocare due combattenti ad un videogioco di combattimento per decidere chi è più forte. Comunque così la pensava la Voce, e aveva deciso che una volta che o i dodici uomini o i dodici mostri feroci avessero eliminato i dodici nemici, la Voce si sarebbe presa la briga di eliminare veramente dall'Universo in venti secondi i membri della razza perdente. Tanto, dice, è solo questione di tempo, e così facendo si risparmia in pace e tranquillità. Bella trovata sterminare una razza per evitare confusione, vero? Ma la Voce sembrava un tantino permalosa e io ero morto di paura, così non dissi nulla.
Una cosa degna di nota è che per non fare sbagli aveva preso dodici esemplari medi di ogni specie: non lottatori o infermi o geni o idioti, né vecchi né bambini. Dodici uomini comuni e dodici mostri comuni.
E porcaccia miseria, non poteva prendere quell'idiota del cassiere che aveva anche una pancetta più standard della mia?
Bèh, superato il primo impatto la situazione si fece bruttina: c'era un pianeta intero sconosciuto, e solo altri undici uomini medi sparsi chissà dove. E c'erano quei dodici alieni cattivissimi che si affilavano le zanne pensando a come cucinare le nostre tenere pancette.
E soprattutto non c'era nessuno che mi potesse cambiare l'assegno.
Almeno il clima del pianeta era mite, e il cibo si trovava ovunque; per di più non c'era pubblicità o Hare Krisna o modelli 101. Ci fossero stati gli stuzzicadenti mi sarei sentito meglio.
Passato lo shock cominciai a pensare che dovevo cominciare a fare segnali in qualche modo per attirare l'attenzione degli altri undici uomini, ma subito dopo pensai che non dovevo assolutamente fare segnali per non attirare i giallofrisci. Brutti, schifosi giallofrisci che strisciano sul ventre squamoso e bavoso alla ricerca di putride radici ypprq. La notte avevo gli incubi: sognavo di lottare con un giallofriscio, e guardandolo scoprivo che era identico a mia suocera, e mi diceva "siamo miliardi e vogliamo farvi diventare tutti nostri generi, tutti in nostro potere!" e io urlavo "Lo sapevo! Lo sapevo!", e infine mi svegliavo mentre mi obbligava a mettere le pattine perché sua figlia aveva appena passato la cera sul pavimento.
Dio, che incubi. Cento volte meglio i mostri bavosi e tentacolari che un pianeta con dodici uomini e dodici suocere.
Comunque il tempo passò e cominciai a riempirmi di anatroccoli quaqquerosi e zompettanti che s'innamoravano di me alla prima occhiata. Cercai di ricordare tutte le scene dei film di Rambo per sapere come comportarsi in territorio sconosciuto e nemico, ma non mi funzionava niente. Voglio vedere se Sylvester Stallone ce l'avrebbe fatta a nascondersi nella foresta vietnamita con uno stormo di anatroccoli viola tra i piedi!
Un giorno riguadagnai fiducia nei miei mezzi. Una specie di poltrona, incuriosita dalla mia puzza di capra, tentò di avvicinarsi per annusarmi, e tutti gli anatroccoli cominciarono ad assalirla feroci, prendendola a calci e rimbalzandoci sopra. Non che le facessero del male, ma il baccano che tirarono fuori avrebbe spaventato anche un giallofriscio. E così avevo un'arma che nessun generale tre stellette aveva mai posseduto: potenti e cattivissimi cuccioli pellicciosi scalcianti, rimbalzanti e con qua-qua incorporato. Fantastico.
Solo che l'acqua nelle foreste di questa palla è sotterranea, non c'è manco un ruscelletto; la sete non è un problema dal momento che le bacche blu sono piene di liquido e costituiscono un pasto un po' schifoso ma completo, ma non mi potevo lavare, così ogni tanto il mio odore attirava qualche poltrona, e quando questo accadeva di notte, quando mentre ero addormentato alla grande tutti gli anatroccoli si mettevano a urlare e rimbalzare su qualcosa al buio, mi svegliavo di colpo col cuore a centocinquanta all'ora e il film della mia vita in un lampo davanti agli occhi.
fsGuardie del corpo va bene, ma io devo pure dormire senza per questo rischiare l'infarto ogni notte!
Raggiunsi il mare qualche mese dopo, un mare di un bianco latte denso come olio. Pensavo di lavarmi con quella roba, ma oltre ad essere denso come olio era anche untuoso come olio: uscii dall'acqua che sembravo un lottatore greco, tutto unto e con i capelli impomatati. Quando poi il sole, un bel sole enorme e giallo, mi asciugò, l'unto formò una crosta dura come zucchero fuso. Ero diventato un enorme, dolciastro croccante umano, e tutti i qua-qua cominciarono a leccarmi felici. Santo Zigulì, che cosa imbarazzante. Quegli anatroccoli non hanno becco né labbra o denti, ma in compenso hanno una lingua del tutto simile a quella umana, e io soffro il solletico da matti.
Beh, meglio le poltrone che quel liquido untuoso.
Camminando lungo la spiaggia conobbi Jo Hiro, o almeno penso si chiami così. È un macellaio giapponese di quarant'anni circa, con due figli nell'esercito e un cervello andato in pappa.
Mi si avvicinò correndo con le braccia larghe come un aereo e gridando "TATATATÀ TARARATTÀ TATTÀ TA TA", credo avesse voluto mitragliarmi.
Quando mi planò vicino vidi la fascia da kamikaze sulla fronte, ricavata da un fazzoletto vecchio. Lo afferrai mentre gli anatroccoli avevano preso a rimbalzargli addosso, e appena lo toccai loro smisero. Grattai il mento di qualcuno di quei cosi, e presero a fare capriole fino a cadere rincitrulliti.
-Chi sei?- chiesi.
-TA TATTARÀ TARATTÀ- disse lui.
-Ah, beh.- Tirai gli occhi in su e dissi -Sayonara!
-Oh! Sayonara! Sayonara!- fu la risposta, e cominciò a parlare in giapponese veloce come una multa per sosta vietata. Mi mostrò la foto di sua moglie e dei figli, della sua macelleria, mi diede il suo biglietto da visita su cui scribacchiò col carboncino un numero di telefono, e infine volò via in cerca di altre navi nemiche da mitragliare.
Un po' fuori di zucca, ma in fondo era un brav'uomo. Almeno fui convinto di questo finché non mi accorsi che mi aveva fregato l'assegno. E era al portatore!
Destino schifo...
Un giorno, poi, vidi del fumo in lontananza, sì, era del fumo e non uno dei soliti getti di vapore bollente. Quei getti sono diversi, sono verdi, ed escono improvvisamente dal terreno sibilando. Una volta costruii una capanna e nella notte uno di quei cosi mi sbucò da sotto il materasso di foglie e mi riempì di vapore umidiccio. Da quella volta ho imparato a costruire scoli in legno da mettere sopra il vapore per raffreddarlo e farne distillare un liquido imbevibile ma almeno utile per l'igiene personale, alla faccia delle poltrone.
Comunque, quella volta non era un geyser: era fumo di legna, laggiù all'orizzonte. Potevo fare tre cose: rimanere lì, scappare o andare a vedere. Se fossi scappato sarei rimasto con la curiosità addosso per tutta la vita, ma forse se fossi andato a vedere non avrei avuto una vita così lunga da potermi ritenere soddisfatto. Comunque, andai a vedere.
Raggiunsi il luogo due giorni dopo ma con tutte quelle paperelle intorno mi sembravo una guida turistica con una scolaresca indemoniata. Feci un tappeto con foglie e rami e me lo misi addosso per nascondermi; poi, durante la notte, strisciai lentamente via col tappeto sopra dalle papere addormentate. Qualcuna si svegliò ma non si preoccupò nel vedere un semplice tappeto di foglie e rami che si allontanava, così riuscii per la prima volta ad essere solo.
Raggiunsi il posto dove sorgeva il fumo all'alba, il momento ideale per cogliere l'incendiario, uomo o mostro, nel sonno. E, pensai, se fosse stato davvero un mostro? Avevo con me un lungo e resistente bastone con una punta fatta a colpi di selce, e avevo dentro qualcosa come la cavalcata delle Walchirie e il rombo di mille elicotteri pieni di napalm. Glie l'avrei fatta vedere io a quel musogiallo. E pensare che la guerra in Vietnam l'ho sempre odiata!
Comunque, da dietro un ramo vidi l'accampamento: era una fattoria vera e propria, qualcosa che ricordava la casa di Nonna Papera! Casetta in legno dal tetto a punta, orticello pieno di piantine ben allineate, tendine di erba alle finestre, tapparelle di paglia, comignolo in pietra rosa, persino una cassetta della posta in legno e una piccionaia!
Era tutto così umano che non poteva essere umano. Non era umano fare una cosa simile lì! Era umano nascondersi, fare il bombardiere kamikaze, girare per il pianeta in cerca di chissà cosa, ma NON era umano fare una cosa simile!
Mi avvicinai lentamente col passo del giaguaro, ho ancora la cicatrice sullo stomaco per quel geyser che m'è uscito sotto a metà strada, ma avevo il mio bastone tra i denti e non ho potuto urlare. Ero cattivissimo, pronto a versare verde sangue alieno su quel suolo straniero cantando "Fratelli d'Italia", insomma ero pronto al corpo a corpo con quel mostro orripilante quando dal pollaio dietro la casa decine di paperi mi videro e cominciarono a urlare felici e innamorati. Cane boia. Con quel casino addio effetto sorpresa, e di colpo la porta si aprì e ci trovammo faccia a faccia.
Tre metri e venti, denti artigli zanne corna bava occhi rossi coda tentacoli e chi più ne ha più ne metta.
Macché! Era un coso di un metro e mezzo, con la pancia, in mutande e canottiera consunta, con una tazza di terracotta in mano e l'espressione impaurita, terrorizzata (quasi quanto la mia) sul suo viso verde con le orecchie a punta.
E già, io ero sporco di terra, il geyser m'aveva colpito in pieno e quindi avevo gli occhi rossi, col bastone in bocca dovevo mostrare i denti come un cane feroce, e così facendo della saliva mista al vapore verdino del geyser m'era colata sul mento barbuto. Avrei messo paura a mia madre.
Quel giallofriscio verde era indeciso se scappare o chiudersi in casa o fuggire nella foresta, così svenne. Plof. Steso sul pavimento come un bambolotto di pezza.
E mo'?
Non c'era nessun mostro di tre metri e venti, avevo passato due anni a cercare, sognare, temere un coso di un metro e cinquanta in canottiera.
Entrai in casa, l'alieno steso così come un coso floscio non sembrava per niente pericoloso, anzi faceva un po' di compassione. Lo misi sul suo letto di foglie (uguale al mio) e girai la brodaglia che cuoceva sul camino. Un odore schifoso. Per forza, c'era dentro una specie di maglia fatta col pelo filato delle paperelle che teneva nel pollaio, la stava facendo infeltrire bollendola nel sugo di bacche blu per farla diventare più compatta.
Passai qualche mese lì con lui, diventammo amici. Imparai anche qualche parola della sua lingua, compresi che "radice ypprq" significa radice di un colore con frequenza inferiore a quella del rosso, detto appunto ypprq, che noi non possiamo vedere; lui comprese che "bacche blu" significa bacche di un colore oltre la frequenza del verde, che loro non riescono a percepire.
Mi disse che nella sua città lui strippava le gnkfrunzole, ma non avendo con sé una gnkfrunzola da strippare non ho potuto capire bene in cosa consistesse quel diavolo di lavoro. Gli dissi che io taravo videoregistratori, ma non avendo videoregistratori da tarare lui non capì.
Cantammo l'uno per l'altro tutte le canzoni che ci venivano in mente, ma non gli perdonerò mai di aver detto che Gershwin è uno con la truscioppi nuvo trisca, ci prendemmo a sganassoni per questo.
Io gli raccontai della Ferrari Testa Rossa e di Bo Derek, lui mi gesticolò dei casinò di Vrishplaaf e delle corse di flucq in Raazukple. Fumammo insieme una radice aerea di maalbroligg, almeno così chiamavamo quelle radici che crescevano davanti casa, e ci trovammo a ridere come matti.
Una sera, però, pensai a cosa stavo facendo. Il mio migliore amico era un alieno verde, un membro della razza con cui prima o poi la Terra avrebbe iniziato una spaventosa guerra per il predominio del diritto di sopravvivenza. Era lì, in camera con me, nella fattoria di Nonna Papera; forse gli altri undici terrestri avevano ucciso gli altri undici giallofrisci, e la Voce aspettava che io uccidessi quel mostro per eliminare la sua razza dal Creato e salvare la vita a miliardi di esseri umani.
Senza volerlo avevo preso tra le mani un coltello di selce.
Bastava ucciderlo, un colpo solo, e io e i miei compagni saremmo ritornati sulla Terra dai nostri parenti, i giallofrisci sarebbero stati spazzati via, le Guerre Stellari sarebbero state cancellate via dal futuro. Bastava ucciderlo. Ora, un colpo solo.
Ero davanti al suo letto. Vidi il suo profilo verde, le orecchie a punta. Poi si girò con i movimenti tipici di chi dorme, e cominciò a parlottare nel sonno: canticchiava "Oh, lady be good!" di Gershwin storpiandone le parole.
Forse prima del mio incontro aveva sognato anche lui incubi spaventosi dove un umano di tre metri e venti con unghie denti zanne artigli coda corna occhi rossi bava e tentacoli tentava di divorarlo, forse anche lui aveva una suocera così simile al mostro degli incubi, forse anche lui non ne poteva più di strippare le gnkfrunzole così come io ne avevo abbastanza di tarare videoregistratori.
Eppure bastava un colpo, un colpo solo sul suo torace, e la vita di miliardi di persone innocenti sarebbe stata salvata...
Aprì gli occhi svegliato dal mio respiro rantolante e mi vide con quel coltello alto sopra di lui, tremante, con le lacrime sulle guance. Si svegliò di colpo e aveva paura, ma il suo viso era privo di espressione, sapeva che prima o poi uno di noi due lo avrebbe fatto e mi era grato per essere stato io il primo a cedere. Era fermo lì, gli occhi che si gonfiavano di lacrime fosforescenti, senza fare una mossa per impedirmelo, senza dire una parola.
Tentai due volte di mandare giù la mano verso la sua gola, ma non voleva obbedirmi; cominciai a urlare per ottenere la forza di farlo, non avevo scelta, ma nessun urlo è mai riuscito a far diventare giusta una cosa abominevole, così gettai con tutta la forza la selce sul camino e corsi fuori gridando come un matto, saltando, sbattendo a rami e a rocce.
Mi fermai all'alba, lontano chissà quanto, su una collina erbosa dove le poltrone pascolavano tranquille.
Non ho più rivisto l'alieno, né voglio mai più rivederne uno; se proprio ci deve essere una guerra tra le nostre razze che sia una guerra vera fatta di eserciti e di bombe, e non una guerra fatta di amici lontani da casa.
Fu allora che la Voce s'incazzò di brutto. Disse che gli altri o si erano uccisi o erano impazziti e che la situazione tra le nostre due razze non aveva ancora trovato una via d'uscita; disse che non eravamo lì per giocare o per fare amicizia, disse che ora eravamo rimasti solo io e il mio amico pelleverde e che tutto dipendeva da noi due. Dovevamo assolutamente combattere.
Ci tormentò per settimane con questa storia, ma lo sguardo del mio amico mi tormenta ancora oggi.
Camminai per mesi, attraversai foreste, montagne e pianure deserte, e ora vivo su questa collinetta in una piccola casa di legno arancione, con un nugolo di anatroccoli intorno e una bella piantagione di rovi dalle bacche blu per farci colazioni, pranzi, cene, dessert e torte. Peccato solo per gli stuzzicadenti, questo legno si sfalda come filo se è tagliato fino.
Ogni tanto la Voce ci ricorda i nostri doveri, anche se è un po' che non si fa sentire. Forse ha perso le speranze, forse s'è arresa all'evidenza. Eh, per forza, anche mia suocera si sarebbe arresa all'evidenza: la Voce è una cretina figlia di puttana, gioca a fare Dio quando non riesce neanche a dividere il giorno dalla notte con l'aiuto di un orologio digitale. La mia razza e i giallofrisci andranno perfettamente d'accordo appena superati i primi problemi di razzismo, e tutte e due le razze insieme faranno la guerra sì, ma a quella stupida presuntuosa Voce del cavolo, fino a ridurla a uno stuzzicadenti, ecco come andrà.
Uno stuzzicadenti.
Io sono un uomo medio, no? La Voce mi ha scelto per questo. Bene, se l'uomo medio la pensa così allora questo pensiero è il pensiero dell'umanità intera; e anche il mio amico, laggiù, so che la pensa come me, quindi anche la sua razza è d'accordo. La Voce ha i giorni contati. E, ora che ci faccio caso, è da quando ho iniziato a pensare così che la Voce è scomparsa. Fossi in lei ci riporterei subito a casa e sparirei dalla circolazione per molto, molto tempo, credo proprio che questa sia la cosa più logica per quella presuntuosa; chissà, forse domani mi sveglierà in banca, e la gente che mi ha visto sparire e riapparire testimonierà a mio favore.
Chissà, forse domani potrò chiedere al cassiere uno stuzzicadenti.


Alto Tradimento #7
Fiaba della BuonanotteQuarta Copertina